La testimonianza di “prima mano” di Mario Jozić, uno dei “Lupi”, gruppo di centauri della cittadina bosniaca di Livno, raccolta da Edvard Cucek. Articolo già apparso su Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa il 10/1/2020
Il racconto di un amico di vecchia data, dopo il 1994 diventato residente nelle terre dei propri genitori, mi ha fatto riconoscere qualcuno che dei cavalli selvaggi della zona di Livno (cittadina a sud ovest della Bosnia) sa proprio tutto. Il suo racconto mi ha portato indietro di quasi 40 anni.
Un viaggio al mare, forse nel 1980, da Banja Luka per andare sull’isola di Hvar (Lesina) ed una scena spettacolare che si svolgeva lungo i prati fiancheggianti la strada che ci portava a Livno per comprare il pane, di mattina presto. Pazzo di gioia imploravo mio padre che guidava la nostra vecchia Fiat 1300 Berlina color bianco avorio del 1966 di fermarsi o almeno di rallentare. Chiedevo da dove venivano tutti ‘sti cavalli, così tanti e così belli sotto i timidi raggi del sole sorgente che bucavano il pulviscolo sollevato dai loro zoccoli. Lì sì che mancava la macchina fotografica. “Dove corrono?” domandavo a mia madre facendo tutto il chiasso che un bambino incuriosito può produrre. Sembrava che i cavalli ci inseguissero correndo sempre al nostro fianco a qualche decina di metri dal ciglio della strada.
Papà non voleva fermarsi, però pronunciò la parola che mi resterà impressa nella memoria.
“Kalaša!”, disse con aria pensierosa.
Cavalli scappati in natura, sciolti fino a diventare selvaggi. Cavalli indomabili.
Di una fermata prima della città non si parlava nemmeno. Mio padre mi raccontò che se ti fermavi i cavalli ti circondavano la macchina perché sempre affamati e curiosi. Così la semplice sosta poteva prolungarsi parecchio finché si riusciva a tirare fuori dal branco.
Non incontrai mai più questi spettacolari animali. La parola invece non la scordai, anche perché una sua derivazione si usa in diversi contesti. Come nel caso dei ragazzi troppo allegri, sregolati, pazzerelli. E da quel giorno sapevo da dove arrivava questo termine “raskalašen” – scatenato fino alla pazzia.
Anche se ormai dopo decenni possiamo chiamarli selvaggi questi meravigliosi animali in realtà sono discendenti dei semplici cavali da lavoro presenti, fino alla metà del secolo scorso, in ogni realtà contadina, partendo da quelle più piccole e familiari. Il cavallo, come dappertutto, era utilizzato come mezzo di trasporto, mezzo di lavoro e per ogni esigenza che una famiglia prima della industrializzazione jugoslava poteva avere.
Non sono stati invece l’industrializzazione, lo sviluppo economico e la possibilità di permettersi un mezzo agricolo i fattori, come spesso si cerca di spiegare il fenomeno, a determinare il destino di questi amici degli uomini. Il fatto di poter acquistare il trattore e di non aver più bisogno di uno o più cavalli e di decidere di lasciarli liberi non è mai stata la causa di questa storia. Il cavallo affamato, nei mesi d’inverno, tornava sempre al suo padrone. Questo lo ribadisce proprio Mario, la persona che con i kalaša ha da fare tutte le settimane, soprattutto in inverno e nei giorni del caldo torrido e la “siccità alla bosniaca” come la chiama lui.
Dietro questa storia c’è qualcosa molto più triste e tragico.
Figli dei “cammini spenti”
Partendo da nord, da Kupres, una cittadina che da Livno dista meno di 45 km, a metà strada si innalza la montagna di nome Cincar (Tsintsar, nome antico e significativo). Da quei versanti parte il regno di queste creature per poi occupare tutta l’area del monte Krug e il suo altopiano alle porte di Livno.
“I primi cavalli diventati selvaggi non sono, come si pensa, cavalli di cui contadini non avevano più bisogno e li lasciavano liberi. La prassi di liberare le bestie, sperando di non dover macellare anche i cavalli quando la fame bussava alle porte e non c’era da mangiare neanche per i figli, esiste da quando viviamo qui”; racconta Mario.
“Questi cavalli ‘liberati’, se sopravvissuti rimanevano sempre vicini alle stalle e alle case. Si proccuravano scarso cibo e finché dai cammini usciva il fumo e le loro orecchie captavano voci umane non si allontanavano mai per evitare di perdersi. Quasi sempre, appena le circostanze permettevano, il padrone si riprendeva il cavallo se ancora in forza e capace di lavorare. I primi cavalli diventati selvaggi furono quelli che non avevano più un posto dove tornare. In realtà figli orfani delle loro famiglie umane. Nella seconda metà degli anni Sessanta intere famiglie in cerca di un futuro migliore lasciavano la loro terra natia. Spesso si trasferivano sulla costa dalmata nella vicina Croazia, oppure in Germania, Nuova Zelanda, Australia e America del Nord lasciando le porte di casa serrate spesso per sempre. I loro cavalli furono i primi a dover cercare da vivere altrove. La trovarono proprio tra montagna Cincar e altipiani di Krug. E sono di tutti e di nessuno. Peggio di così non può essere”, conclude il suo racconto questo centauro, uno di cui cavalli si fidano al di fuori dal mio concetto del rapporto che si può istaurare tra un umano e un animale selvatico.
Sembra che i cavalli riconoscano anche il rombo del motore del suo “fuoristrada” russo di marca -Lada Niva-che di certo ricorda i tempi migliori, e gli vengono incontro. D’altronde diversi gruppi di entusiasti lanciatisi nel mondo del safari-turismo ci mettono ore per incontrarli. Bisogna cercarli i kalaša, questo si sapeva da sempre. Questi altipiani carsici occupati da loro si stendono su più di un centinaio di chilometri quadrati. Raramente li trovi al primo tentativo e quando succede il punto d’incontro è la strada e spesso di notte. Mario dice che per qualche motivo, a lui sconosciuto, non manca quasi mai di incontrarli.
Bellezze difficili da gestire
Dopo un lungo racconto, concedendomi veramente tanto tempo, Mario conclude che in realtà di questo sensazionale fenomeno, unico da queste parti del vecchio continente ma abbastanza raro anche nel resto dell’Europa, non si occupa formalmente nessuno. Il Comune di Livno, per un certo tempo assuntosi la gestione dei branchi, ha ceduto dopo le prime e numerose cause degli automobilisti che in presenza dei cavalli sulla strada sono finiti fuori subendo danni ai veicoli. Oppure, nei casi fortunatamente meno frequenti, in cui si sono schiantati contro gli animali.
C’è poi l’Associazione “Borova Glava” che si occupa di ecologia e foreste e cerca di dare un contributo soprattutto nei mesi invernali fornendo il sale in punti predisposti, sempre cercando di evitare che i cavalli vadano a cercarlo, il sale, proprio sul manto stradale dopo gli interventi dei mezzi spargisale. Anche loro non hanno mai potuto assumersi un ruolo giuridico. Nessuno sarebbe intenzionato di registrarsi come ente che si occupa dei branchi di kalaša, li gestisce, li promuove come offerta turistica ma si assume anche le responsabilità dei danni da loro causati. Smettendo in tali condizioni di occuparsi dei cavalli anche in modo “meno formale”. A quel punto, in modo costante e serio ormai dal 2007, in scena sono entrati “Lupi”. Anche se a prima vista non facilmente riconciliabili, due realtà sul campo funzionano moto bene.
“E’ la libertà che ci rende così vicini. Noi “cavalchiamo” in piena libertà e un animale come il cavallo selvaggio non può che essere un nostro amico”, ribadisce Mario.
Mi mostra una lunga lista delle strutture che hanno costruito con i propri soldi. Dagli abbeveratoi alle tettoie rudimentali dove nascondersi, almeno per quelli che capitano nei paraggi, in caso di grandine. Le mangiatoie dove lasciare del fieno e addirittura un rifugio per chi vuole visitare gli altipiani o per chi facendo la manutenzione delle strutture si ferma fino a tardi. I cavalli sono tanti. Mario si rifiuta di speculare sui numeri. Quello che ha sentito o letto in tutti questi anni su un “numero totale” gli dà molto fastidio. La prima cosa che i giornalisti vogliono sapere e qui ne sono passati tanti. Conferma comunque che il numero non è inferiore di 400 unità. Tanti si confondono osservando i branchi (un certo numero di cavalle con i relativi puledri) e associando ogni branco a quello che loro chiamano Lo Stallone. Il calcolo un stallone = un branco non funziona in questo caso e così si va a fantasticare su numero infinito di esemplari. Uno (sulla destra della foto sottostante) ne guida due a volte anche tre/quattro branchi e appena si accorge che un altro maschio intende di impossessarsi delle sue femmine non esita di rimproverarlo. Lui è uno di quelli al quale è difficile avvicinarsi.
Toccando questo argomento Mario è molto perplesso riguardo la nascita di questa specie di turismo e safari fotografico con protagonisti principali i kalaša. E’ consapevole che la cosa deve partire e ben venga che una rarità come questa sia valorizzata, ma vedere questi gruppi così chiassosi, intenti a fotografare tutto senza un minimo di precauzione, andando anche a cibare le bestie con dei prodotti assolutamente non idonei, fa tanto preoccupare. Non si tratta di una gestione normale dove un ente turistico formato per organizzare i giri e osservare i cavalli si occupa della gestione. Si tratta di qualche giovane entusiasta, anche con nobili idee e con tanto amore per questa terra, ma i modi in cui si svolgono queste gite sono molto spesso pericolosi. I kalaša sono comunque selvaggi e questo non bisogna mai toglierselo dalla testa. Mario personalmente ha assistito più volte alle tragedie mancate per un millimetro. I zoccoli sfioravano qualche testa lasciando i presenti impietriti.
Piano giunge l’ora di salutarsi. Mario mi convince che i cavalli ballano qualche volta e mi mostra anche una foto e ammette che la vita senza i suoi amici a quattro gambe per lui sarebbe difficilmente pensabile.
“Niente di più emozionante di quando un puledro, dopo aver appoggiato la testa sul cofano della mia vecchia Lada, per fermarmi mi sembra a volte, infila suo muso dal finestrino cercando quello gli spetta”, dice con gli occhi lucidi.
Per finire gli chiedo come è possibile non trovare niente, inserendo sui vari motori di ricerca nome kalaša, che colleghi i cavalli selvaggi con il loro antico nome?
“Politica”, dice.
“Per qualcuno, o per tanti, considerando che ci troviamo nella parte della Bosnia della larga maggioranza croato bosniaca, questo nome che suona troppo asiatico e orientale non è molto carino. Preferiscono chiamare kalaša “cavalli selvaggi di Livno” e così si cerca di presentare il fenomeno al pubblico comune. Inoltre i cavalli non sono mica solo della zona di Livno, provengono da Kupres e anche dalle parti a sud della municipalità di Livno”, conclude.
–Nomina sunt odiosa– dall’antica Roma fino alla Bosnia odierna.