Il 4 settembre 2018 è scomparso il grande pugile jugoslavo Marijan Beneš. Nato a Belgrado e cresciuto a Tuzla, aveva scelto Banja Luka come sua città. Si ripropone un articolo scritto da Edvard Cucek pochi giorni dopo la scomparsa del pugile e poeta (articolo già apparso su Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa il 12/09/2018).
Il 4 settembre, nella “sua amata Banja Luka” si è spento all’età di 67 anni il grande pugile Marijan Beneš. E’ stato uno dei migliori pugili europei e una vera leggenda del pugilato jugoslavo. E’ spirato dopo una lunga malattia, un po’ dimenticato, se non da tutti sicuramente da tanti.
I suoi ultimi giorni in ospedale, come del resto gli anni che li hanno preceduti, da quando era rientrato in Bosnia Erzegovina, sono trascorsi senza il dovuto interesse delle autorità locali e del “Comitato olimpico della Bosnia Erzegovina”. Beneš lascia un vuoto nella città alla quale ha dato tutto e dove ha perso quasi tutto pur senza mai smettere si sentirsene parte anche quando la città ha cambiato il suo volto e lui da cittadino, è stato trattato come straniero.
Non era nemmeno un vero “banjalucanin”. Era infatti nato a Belgrado nel 1951 e fino ai suoi 16 anni ha poi vissuto a Tuzla. La sua carriera inizia nel 1967 quando ancora minorenne finisce nel club di pugilato “Slavija” a Banja Luka. In pochi anni vincerà moltissimo nelle categorie amatoriali, periodo culminato con la vittoria della medaglia d’oro agli europei per amatori nel 1973 a Belgrado.
Nel 1977 passa poi al professionismo e di 39 incontri ne vincerà 32 di cui addirittura 21 con il suo famoso “colpo di martello” che finiva con l’avversario steso definitivamente sul pavimento e con il pubblico in delirio.
Campione europeo
Un evento del lontano 1979 racconta della straordinarietà di questo “ragazzo semplice”. Il 17 marzo di quell’anno si avverò uno dei più grandi desideri di Marijan: combattere per il titolo di campione d’Europa nella propria terra. Non solo in Jugoslavia, ma addirittura a Banja Luka, la città che riteneva sua in tutti i sensi. Lo sfidante era il temibile francese nato in Tunisia Gilbert Cohen. Dal 1974 al 1975 in 25 incontri ne aveva persi solo 4.
L’incontro era organizzato in una sala del complesso sportivo “Borik”. Anche se aveva pochi anni di vita, si temette addirittura per la staticità del edifico. La sala destinata ad ospitare l’evento venne stipata con molte più persone della capienza massima. L’intera città era in stato d’allerta. Dopo pochi secondi dal gong del quarto round su Gilbert Cohen scese una pioggia di colpi precisi e inarrestabili. Il campione francese che difendeva il titolo europeo finì sul pavimento del ring, immobile e con un tentativo di rialzarsi che, a vederlo ancora oggi, fa tenerezza.
Tutt’oggi i testimoni di questo evento straordinario sparsi sull’intero globo si raccontano che la città non ha mai vissuto un’agitazione simile a quel giorno primaverile. Le strade erano deserte. Tutta la città sembrava essersi versata davanti al complesso sportivo e i più fortunati nella sala dell’incontro. I bambini e i vecchi davanti ai televisori.
Dopo la vittoria così spettacolare, che andò oltre ogni ottimistica previsione, la gente portò a braccia il proprio eroe per le vie della città. Fu una festa indimenticabile. Marijan aveva vinto il titolo del campione d’Europa nella propria città, davanti ai concittadini, che lo amavano tantissimo. Ad un passo dal titolo di campione del mondo, nel 1980, dovette rinunciare per gravi problemi ad un occhio. Dopo lo perderà purtroppo. Decise di ritirarsi dal mondo della boxe nel 1983, facendo solo qualche match di esibizione fino agli anni Novanta.
Figlio di un insegnate di musica di origini ceche nato in Vojvodina presso una famiglia cattolica e di un’insegnante originaria della regione della Lika, in Croazia, di famiglia ortodossa Marijan da giovane frequenta la scuola di musica, suona il flauto e il pianoforte e un po’ anche il violino.
Crebbe a Tuzla, città all’epoca multietnica (tante altre città bosniache lo erano) e nella sua infanzia sia l’appartenenza etnica che la religione furono elementi irrilevanti. Lontano da queste questioni si dichiarava da giovane semplicemente “jugoslavo”.
La guerra
Amava la Jugoslavia, i suoi popoli e il Presidente Tito. Con queste convinzioni sentirà addosso tutta la negatività portata dalla guerra degli anni Novanta e dalla pulizia etnica che colpì anche la sua città.
I primo tragico evento che lo colpì personalmente fu la morte del fratello Ivica, attivo nella politica locale e ucciso da estremisti serbi in quanto visto come un pericolo per il nuovo ordine nel quale per i non serbi della città non c’era più posto. Né mandante né esecutore di questo crimine saranno mai scoperti e processati.
Poco dopo Marijan Beneš venne brutalmente aggredito davanti al bar di sua proprietà da un gruppo di cittadini. “Chi è più forte adesso campione?” fu l’ultima cosa che sentì dopo essere caduto a terra, dolente e umiliato laddove solo pochi anni prima era una leggenda vivente. Racconterà tutto il suo dolore per questa aggressione in varie interviste rilasciate negli anni successivi.
Per la sua presunta appartenenza alla religione cattolica veniva considerato croato e quindi Marijan, come tanti altri non serbi di Banja Luka, dovette fuggire temendo per la propria vita. Considerandosi sempre jugoslavo decise di scappare in quello che rimaneva della Jugoslavia, ormai in fase di violenta dissoluzione, e si rifugiò a Belgrado. Una città però che gli fu subito ostile. In quegli anni lui veniva semplicemente identificato come un “ustascia”, un estremista croato, uno qualsiasi, insignificante. Nessuno mostrava alcuna empatia per quello che gli stava accadendo.
Dopo una breve permanenza in Serbia, decise di trasferirsi a Zagabria dove si augurava di trovare un po’ di quiete. Ma anche lì non vi fu una grande accoglienza. Tanti non avevano dimenticato le sue dichiarazioni a favore della Jugoslavia, come quando alla vigilia della guerra lui stesso si dichiarava partigiano rifiutandosi di schierarsi con alcuna delle correnti dei nazionalismi appena risvegliatisi. Deluso di quello che era rimasto di questo paese che amava e che lo amava decise di tornare in Bosnia, a Banja Luka, già nel 1996, a guerra appena terminata.
Gli ultimi anni
La sua vita continuò quasi inosservata. In quegli anni tornò alle sue passioni giovanili: la poesia e suonare, per quanto glielo permettessero le mani in più punti fratturate, ricordo degli anni gloriosi.
Tante proprietà dell’eroe di Banja Luka gli erano state espropriate, il suo appartamento svuotato e danneggiato. In condizioni di salute ormai precarie – con problemi di vista e gravi problemi con le corde vocali, Marijan trova sistemazione sia presso qualche lontano parente che presso amici di vecchia data. In una città la cui popolazione è stata “rinnovata” dalla pulizia etnica riesce almeno a muoversi con un rischio ridotto di essere riconosciuto, in un periodo in cui le tensioni ancora non mancavano. Una vita in incognito.
Passeranno molti anni prima che in città ci si accorgesse che l’eroe viveva nuovamente lì. Marijan Beneš riuscirà a riottenere la proprietà su parte di ciò che gli era stato illegittimamente espropriato. Un giornalista sportivo nel 2004 farà un film documentario “C’era un volta un Campione” che gli permetterà di girare i paesi della ex Jugoslavia e di guadagnare qualcosa per vivere dignitosamente.
Qualche anno dopo, riconoscimento arrivato però troppo tardi, gli sarà concessa la cosiddetta “pensione olimpica”. Un importo irrisorio rispetto a quello che lui aveva dato ai propri concittadini. Dall’inizio degli anni 2000 Marijan ha poi iniziato a pubblicare le sue poesie e uno dei suoi libri, di carattere autobiografico, titola “L’altro lato della medaglia”.
Oltre alla poesia Marijan ha fondato – pur con le modeste risorse a sua disposizione – anche una piccola scuola di pugilato per giovani rom. Non lo hanno mai voluto invece come allenatore nel suo club, lo “Slavija” al quale ha portato una gloria mai più raggiunta.
Nella carriera ha combattuto 299 incontri, 272 volte ha vinto, 16 ha perso e 11 volte ha pareggiato.
Addio campione, spero che la tua città saprà valorizzare almeno adesso quanto sei stato un cittadino modesto, altruista, onesto e tragico.