DAL SITO DI GUIDO LEONELLI (vai al sito)
Finora c’eravamo stati alcune volte con i brevi viaggi di “Progetto Prijedor” www.progettoprijedor.org per tentare di fare una prima conoscenza, attraverso incontri con persone del posto, visite, discussioni. E sempre pieni di tante emozioni. Avvertivamo ora la necessità di approfondire queste nostre conoscenze attraverso un viaggio di più giorni che ci portasse anche in altre importanti realtà, a contatto con altra gente. Pur abituati a viaggiare in autonomia, abbiamo dovuto ricorrere all’aiuto di alcune persone ed è grazie a loro, al loro aiuto materiale, agli utili consigli, alla preziosa documentazione se siamo riusciti nell’intento. Un “grazie” quindi di cuore a Sladjana Milijevic di Progetto Prijedor, a Eugenio Berra www.viaggiareibalcani.it/, alla Dr.ssa Marina Vicini della Camera di Commercio Italo-Bosniaca, di Ravenna www.cameraitalobosniaca.it.
Il viaggio attraverso la Bosnia, un Paese tuttora molto complicato, è durato sette giorni, (il rientro è poi avvenuto attraverso la Dalmazia) e ci ha portato a contatto di diverse realtà; proverò a suddividerlo grossomodo in tre diversi momenti che cercherò di ricordare in maniera la più succinta.
1) Prijedor e dintorni.
La visita alla famiglia Curak, che ci ha accolti ed ospitati a pranzo col sorriso e una grande evidente riconoscenza, ci ha permesso di prendere visione diretta dell’avanzamento dei lavori della stalla. Si tratta dell’impegno che, con familiari ed alcuni amici, ci eravamo presi già qualche mese fa e che finalmente pare vedere la soluzione finale. La stalla, in parte interrata, e capace di ospitare fino a tre bovini, ha al piano superiore quello che diventerà il fienile. Ad Omer, col prezioso aiuto della moglie Kenita e saltuariamente di un amico, rimane ora soltanto la posa delle cantinelle e delle tegole del tetto oltre ai serramenti. Abbiamo trascorso alcune ore assieme, parlando (con l’aiuto di Sladjana) del passato ma soprattutto del presente e del futuro che, con le tre belle bambine, pare essere ora più sereno e rassicurante.
Abbiamo concluso la giornata a casa di Refika, una carissima amica musulmana con la quale abbiamo poi trascorso l’intera giornata successiva, intendendoci alla perfezione pur col nostro tedesco rabberciato. Abbiamo così appreso di un seminario di due giorni al quale aveva avuto occasione di partecipare anche lei: a confronto tre gruppi di dieci donne, fortemente provate dalla guerra e divise da etnia e religione. Un racconto intenso e, a tratti commovente, di un incontro moderato da due psicologi, durante il quale ognuna aveva l’occasione di raccontare oltre alla propria dolorosa esperienza, i propri sentimenti, le proprie emozioni. “Non è stato sempre facile”, confidava Refika. Il racconto della retata, 20.7.1992, il giovane marito portato via dai serbi, il ritrovamento, soltanto nell’ottobre dello scorso anno, di una fossa comune, il riconoscimento, attraverso l‘esame del DNA. E dopo la retata la deportazione di Refika in un campo di raccolta di Travnik, seguita da una lunga fuga attraverso la foresta fino a raggiungere un posto più sicuro oltre il confine con la Croazia; infine l’aiuto di un fratello residente a Zagabria e il viaggio, come profuga di guerra, con una bambina di due anni, in Germania e la difficile convivenza di 27 persone in due camere. Ma anche l’occasione di conoscere una famiglia molto generosa, “la mia nuova famiglia”, come lei tiene a precisare, con la quale l’amicizia continua a distanza di oltre vent’anni.
Anche il pranzo, a base di trote appena pescate sul fiume Zdena e la successiva visita alla sua città natale Sanski Most hanno contribuito, sia pure fra momenti di profonda commozione, a rinvigorire un’amicizia già salda.
Ora il 20 luglio è considerato la giornata della memoria per i sopravissuti di questi piccoli villaggi alla periferia di Prijedor. In questa occasione, in case sempre in costruzione e che non verranno mai abitate definitivamente, si ritrovano i sopravissuti che lavorano all’estero, in gran parte in Germania ma anche in Svezia, Olanda e altrove ma che sentono ancora forte l’attaccamento alla loro Madrepatria.
Ora Refika, con coraggio, ha ripreso a vivere e, con l’aiuto di persone generose e con tanta forza d’animo, s’è rifatta un tetto (a poca distanza da quello allora incendiato) e dedica il suo tempo facendo assistenza agli anziani.
2) Sarajevo
Salutiamo Refika trattenendo a fatica le lacrime e proseguiamo in direzione di Sarajevo. Sosta a Travnik per una breve visita a questa bella cittadina e alla sua interessante moschea col porticato. Poi si prosegue in una giornata fredda e piovosa; poco più avanti saremo avvolti da una fitta nevicata. Fra tre giorni sarà Pasqua.
La mattina successiva ci raggiunge in albergo Edina, un’amabilissima signora che parla un italiano fluente, che ci accompagna con dolcezza, senza fretta e con grande competenza a visitare tutto ciò che di visitabile c’è in città fra gente accogliente. Persona di una grande ricchezza d’animo e un’eccezionale apertura mentale, riesce ad esprimere una grande passione per la sua terra pur così martoriata e un grande amore per la sua gente, senza distinzione di razza o di religione. È riuscita a farci capire cosa significhi davvero città cosmopolita. È riuscita a parlarci dell’assedio di Sarajevo, dei bombardamenti e delle stragi con oltre 10.000 morti e decine di migliaia di feriti senza manifestare nemmeno un’ombra di un odio che parrebbe invece legittimo. Il suo sguardo s’è velato e il suo viso ha manifestato tristezza soltanto parlando dell’attuale situazione di grande difficoltà sociale ed economica della sua gente e riandando coi ricordi agli aiuti umanitari che da ogni parte del mondo arrivavano nei momenti di maggior bisogno: molto spesso i medicinali erano scaduti da qualche anno ed il cibo, anch’esso scaduto, era avariato al punto che perfino gli animali domestici lo rifiutavano.
Siamo stati assieme poco più di mezza giornata e ci siamo poi salutati come se fossimo amici di lunga data. Una persona da conoscere l’architetto Edina e non solo come guida turistica.
Senza pretendere di dare io l’interpretazione corretta dei fatti, l’idea che finora mi sono fatto è che divergenti fra loro sono le spiegazioni di come si sia arrivati a questa incredibile guerra fratricida. Secondo quella forse predominante, dopo la morte di Tito (maggio 1980), fra le diverse confederazioni che componevano lo Stato, la Serbia, con la maggior estensione territoriale, con l’esercito più armato, con la capitale Belgrado che era anche capitale di Stato, iniziò ad avere mire espansionistiche ed egemoniche. Tralascio volutamente di entrare in particolari (ognuno potrà documentarsi a proprio piacimento) ma, con l’aiuto sia pure altalenante della Croazia ed in certi momenti, con l’aiuto dell’esercito montenegrino, l’idea, sostenuta da fedi ed etnie diverse, era di annetersi la Bosnia (prima che ne ottenesse l’indipendenza che arriverà soltanto nel 1995) attraverso una pulizia etnica secondo la quale i musulmani non avrebbero più avuto diritto di cittadinanza. All’assedio di Sarajevo, per esempio, che molte morti e distruzioni portò, partecipavano centinaia di cannoni serbi e montenegrini mentre la difesa della città era affidata a due soli cannoni.
La mattina successiva, durante la visita al Tunnel, abbiamo occasione di scambiare qualche parola con un giovane 31enne, rimasto orfano ad otto anni durante l’assedio e che fu poi adottato da una famiglia di Pisa. Secondo lui è tuttora molto difficile parlare di pace: “sotto sotto domina ancora l’odio e dimenticare sarà impossibile” afferma.
Da un’interessante rivista della Camera di Commercio Italo-Bosniaca, sul tunnel riporto quanto segue:
“… è stato costruito durante la guerra e scavato interamente con le mani da 70 persone che, divise in tre squadre, hanno lavorato in condizioni inimmaginabili giorno e notte per quattro mesi … Alla fine, il 31 luglio 1993, il tunnel era lungo 800 metri, largo 85 cm e alto 1,5 metri, passava sotto la pista dell’aeroporto e finiva a Dobrinija, con le prime case di Sarajevo… Per tre anni è stato l’unico collegamento della città col mondo… 24 carellini da miniera trasportavano sui binari armi, feriti, vettovaglie, civili e militari: 3.000 persone al giorno. Oggi del tunnel rimane un breve tratto visitabile, diventato museo…”
3) Mostar e oltre
Con un viaggio non lungo, ancora molti segni evidenti della guerra, e con alcune soste, ci arriviamo nel primo pomeriggio e subito iniziamo a girare per la città ed a guardarci attorno.
Agli occhi distratti di un passante, rispetto a Sarajevo, Mostar pare appartenere ad uno Stato diverso con una diversa storia anche se ancora tanti sono i segni del massacro del 1992: case mitragliate e ancora completamente distrutte ma qui, anche grazie ad un turismo religioso di rimbalzo dalla vicina Medjugorje che porta a far sì che il 70% dei turisti siano italiani, la città ha recuperato la sua vivacità che si sviluppa soprattutto attorno al famoso ponte sul fiume Neretva, distrutto nel novembre 1993 e ricostruito (inaugurazione) nel 2004. Una miriade di bancarelle e negozietti dove si vende di tutto e una quantità di bar e ristoranti. Tutto ruota attorno allo splendido ponte (Stari Most) ora preso di mira da migliaia di scatti fotografici.
La sera avremo modo di scambiare lunghe parole in italiano con il gestore del ristorante dove ceniamo (ottimi i suoi cevapcici). E si rifà viva l’impressione che più la gente racconta, meno chiara diventa la storia di questa guerra. Tante impressioni e tanti punti di vista che non coincidono, tante sensazioni e tanti sentimenti che si incrociano e si sovrappongono con un’unica costante: è stata una guerra di pura follia senza un solo motivo che riesca a spiegarla. Nulla è più come prima e il timore e la diffidenza covano sotto le ceneri, nonostante le apparenze. La gente si guarda con un sospetto che prima non c’era.
La mattina successiva, è la vigilia di Pasqua, troviamo anche il modo di fare due passi salendo sulla collina che sovrasta la città. Da qui il 9 novembre 1993 i miliziani croati, con un accurato bombardamento di mortai, distrussero il celebre Stari Most. In uno dei tanti negozi del centro, avremo modo di rivedere il film agghiacciante della distruzione del ponte. Ora vi domina un’enorme croce metallica di 30 metri di altezza ma tutt’attorno non mancano i cartelli che invitano a non uscire dalla strada per la presenza di mine. Guerra, odio e religione qui si mescolano con la povertà e la miseria di ancora molta gente. Tante moschee e tanti alti minareti; una grande cattedrale cattolica con un campanile di altezza spropositata, che fa pensare ad una competizione di chi riesca ad arrivare più in alto.
Nel pomeriggio incontriamo Ejla, la nostra giovanissima guida con laurea in psicologia (ma con tanta dificoltà a trovare lavoro) con tanta buona volontà ma priva ancora di altrettanta conoscenza ed esperienza. Ha il pregio però della conoscenza di un italiano comprensibile; dopo quanto da noi già visto, pare non aver molto da aggiungere. Anche lei è stata provata dalla guerra con la perdita di una sorella.
Il giorno dopo, mentre la pioggia non accenna a concedere tregua, accompagnati da Lejla, andremo a visitare Blagaj col suo monastero dei dervisci e saremo poi noi, sempre sotto un’incessante pioggia, a farle da guida nella salita alla collina dove sorgono i resti di una fortezza.
Il giorno sucessivo, con un tempo sempre molto inclemente, iniziamo il nostro viaggio che, con alcune interessanti tappe, quali Stolac, Turdos ed altre, ci porterà prima alla sempre affascinante Dubrovnik e poi, con un’ulteriore tappa, alla bella città di Zara.
Tratto dal sito di Guido Leonelli (vai al sito http://www.guidoleonelli.altervista.org/)